Il primo prodotto da vendere è la propria marca

Solo attraverso un brand forte, con il suo portato di valori e significati ben riconoscibili, è possibile distinguersi in un panorama caratterizzato dalla molteplicità dei concorrenti e dalla frammentazione dei mezzi di comunicazione.

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Solo attraverso un brand forte, con il suo portato di valori e significati ben riconoscibili, è possibile distinguersi in un panorama caratterizzato dalla molteplicità dei concorrenti e dalla frammentazione dei mezzi di comunicazione. Per ottenere questo risultato differenziante, occorre dotarsi di una solida brand identity, come ricorda Gaetano Grizzanti, autore del libro Brand Identikit (Fausto Lupetti editore, 2011), che rimanda proprio a “quell’insieme di codici visuali, testuali e verbali che, coerentemente con gli obiettivi strategici, hanno il compito di rendere riconoscibile l’emittente e di costruire una memorizzazione differenziante”.

Questa definizione aiuta a comprendere come la brand identity, più che una questione di comunicazione, sia qualcosa che attiene al business dell’azienda. “Troppo spesso - precisa Grizzanti -, la brand identity è associata all’esigenza di promuovere l’immagine finale che l’azienda vorrebbe proiettare sul mercato, ma è un errore, perché la brand identity non va confusa con la pubblicità”, è dotata di una sua autonomia disciplinare, e in quanto tale va innestata strategicamente, ossia deve nascere dall’idea di business che muove l’impresa, per poi svilupparsi con coerenza rispetto a tutto ciò che la marca intende dichiarare al mercato e ai propri clienti.

 

Branding, leva competitiva per differenziarsi

Per comprendere appieno l’importanza della brand identity nel determinare il successo o il fallimento di una marca, è utile partire da una considerazione di carattere generale: nel mondo globale in cui viviamo, quasi tutti i principali beni e prodotti di consumo sono facilmente clonabili e riproducibili, e sempre più raramente costituiscono il reale elemento di differenziazione competitiva nel mercato delle imprese. Per intenderci, non compriamo una certa automobile solo perché è un mezzo di trasporto, o un determinato cibo solamente per nutrirci, o ancora un abito per proteggerci dal freddo, li scegliamo per quello che rappresentano, per i valori e i significati di cui sono portatori.



Tuttavia, dato che ogni settore merceologico è caratterizzato da una sostanziale omologazione dell’offerta, ecco che allora la principale partita per conquistare il consumatore la si gioca sul terreno della marca, intesa, seguendo la definizione di Grizzanti, “come quell’entità concettuale che, presidiando il territorio mentale degli individui, evoca un insieme di valori predefiniti, definendo così il posizionamento sul mercato”.



In quest’ottica, emerge con evidenza il valore strategico del branding inteso, “oltre che come disciplina preposta alla creazione e costruzione del brand, anche come approccio di business al mercato, basato su una strategia orientata a vendere una marca, e non solo il prodotto”. Dunque il branding si configura come “la leva competitiva capace di consentire la costruzione di una proposta unica”, questa sì, a differenza dei prodotti, difficilmente duplicabile: si pensi, per esempio, al valore aggiunto che generalmente il consumatore attribuisce all’iPod della Apple, rispetto agli altri mp3 in circolazione.



Ecco che allora il branding va a configurare un modo particolare di fare business in cui si valorizza la centralità del brand come asset strategico dell’impresa, delineando il modo in cui l’azienda si organizza e si propone sul mercato.

brand equity

Brand identity, bussola della comunicazione

Se tuttavia è vero che la brand identity non va confusa con la comunicazione, perché deve dispiegarsi ‘a monte’ insieme all’idea di business, nel rapporto con variabili fondamentali come lo scenario di mercato e il panorama competitivo in cui si trova l’azienda, è anche vero che il legame con la dimensione della comunicazione è molto forte. Perché quest’ultima è fortemente influenzata dall’identità della marca.

In particolare, senza un’adeguata e preliminare definizione e comprensione dei tratti distintivi della marca per studiare una brand identity, qualsiasi successiva azione di comunicazione rischierebbe di perdere inesorabilmente di efficacia, rischiando di risultare non coerente con i valori e i significati decisi dalla strategia di identità. Di conseguenza, è quindi assodato che la pubblicità e tutte le altre forme di comunicazione debbano essere coerenti con i principali ‘codici visivi’, caratterizzati da specifici colori, un certa iconografia o un carattere tipografico, i ‘codici testuali’, come un nome, un payoff o un messaggio da trasmettere, e i ‘codici evocativi’, che rimandano a un mondo metaforico da trasmettere e alle sensazioni da comunicare. Altrimenti, se così non fosse, si rischierebbe di ridurre il valore performante della comunicazione attivata, e in ultima analisi, di sprecare il budget investito. 

In questo discorso, ogni forma di comunicazione dovebbe essere un’espressione di brand communication, ossia un’iniziativa focalizzata non tanto e non solo sui prodotti e sui servizi dell’azienda, ma impegnata nel comunicare la marca stessa, con il suo imprescindibile bagaglio identitario. “Troppo spesso - aggiunge Grizzanti - sentiamo distinguere tra comunicazione di prodotto e comunicazione istituzionale, mentre la comunicazione di marca ha un valore trasversale e dovrebbe permeare ogni forma di comunicazione attivata”.

 Ma attenzione, molto spesso, si tende a ridurre la brand identity all’identità visiva della marca, compiendo un sottile errore di semplificazione: perché l’identità della marca non è data solo da ‘ciò che si vede’, ossia dal brand design, ma anche da ‘ciò che si legge’ e da ‘ciò che si sente’. “Troppe volte - precisa Grizzanti - le aziende si rivolgono alle agenzie del nostro settore solo per la scelta del logo, del carattere tipografico, dell’identità cromatica e del sistema iconografico, ma la brand identity non è riassumibile solo in questi output di carattere estetico, c’è anche una componente culturale, strategica, non visibile, psicologica ma determinante, che definisce l’ossatura e la grammatica del progetto di brand identity”.

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Il patrimonio valoriale della marca e il punto di vista dei consumatori

Altro tassello fondamentale da prendere in considerazione per comprendere le dinamiche del branding è sicuramente la brand equity, che possiamo tradurre come il patrimonio valoriale della marca e che rappresenta l’insieme dei valori di cui la marca decide di farsi portatrice. In particolare, sulla scia delle definizioni di Grizzanti, la brand equity “rappresenta l’insieme dei valori distintivi e differenzianti con cui una marca presidia il territorio mentale dell’individuo, grazie ai quali si pone e compete sul mercato”. Diventando dunque l’anello fondante di una moderna strategia di business.

In altre parole, precisa Grizzanti, la brand equity è tutto ciò che si dovrebbe raccontare al pubblico se “al momento di promuovere un prodotto non ci fosse consentito di dire nulla relativamente al prodotto stesso”. Ma da non trascurare è anche la brand image, che corrispondendo a ciò che i consumatori pensano di una certa marca, è la variabile fondamentale da prendere in considerazione quando si interviene sulla brand identity di una marca già esistente.

È infatti evidente che la rilevazione di forti incongruenze tra la brand image percepita dai consumatori e la brand identity emessa dall’azienda starebbe a indicare la presenza di problemi ed errori strutturali, da correggere con un’adeguata operazione di rimodulazione della brand identity, che dovrebbe coinvolgere tutto il management aziendale e non solo il reparto del marketing, come capita di solito.
 

L’approccio etico? Una necessità, ma serve coerenza

Infine, un tema sempre più centrale, che influenza le pratiche di costruzione e rimodulazione della brand identity è sicuramente quello degli aspetti etici. Oggi, grazie alle trasformazioni prodotte da internet e dai social media, le aziende si trovano nella condizione di aver perso il monopolio del controllo del processo di comunicazione.

In un contesto in cui i riceventi sono diventati anche gli emittenti dei messaggi e dei contenuti informativi, le marche si trovano a essere sotto costante osservazione e valutazione. Ciò significa che se un brand fa qualcosa di scorretto, finisce con l’esporsi a critiche pubbliche e collettive con molta più facilità rispetto a quanto avvenisse in passato. E allora, come comportarsi?
 
La prima regola da seguire è fuggire l’improvvisazione, nel senso che gli approcci etici devono svilupparsi con coerenza rispetto alla cultura e all’identità della marca. “La sfida più difficile e importante - aggiunge Grizzanti - è proprio quella di riuscire a infondere i valori etici, della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale già nella brand identity della marca.

Dunque, definire una brand equity e una strategia di identità in cui l’approccio etico sia parte integrante e strutturale dell’identità della marca” e non una mera azione estemporanea, come per esempio la casuale partecipazione a qualche iniziativa di beneficienza, che rischierebbe di essere interpretata dai consumatori come non credibile, perché non coerente con l’identità fondante della marca.
 

Intervista di Mario Garaffa, tratta da NC Dicembre-Gennaio 2012.