Il concetto di infinito è insito nella mente dell’essere umano, la cui essenza si confronta quotidianamente sia con tutto ciò che egli non può spiegare razionalmente sia con i propri desideri di immortalità, quale risposta inconscia alla consapevolezza sulla precarietà della vita terrena. Credere a una vita oltre la morte, infatti, è un bisogno recondito della vita stessa, necessario all’individuo che - per vivere ogni singolo giorno - deve dare un obiettivo di ideale e perpetua esistenza. L’idea dell’infinito, infatti, è indubbiamente impressa nel nostro Dna, indispensabile per preservare l’istinto di sopravvivenza e lo spirito di continuità della specie, che si concretizza nel tentativo di lasciare un segno del proprio passaggio nella storia, attraverso un’azione o - per esempio - concependo un figlio, archetipo della nostra voglia di eternità.
Due esempi di applicazione nell'ambito della brand identity: il logo del femminismo (Women Power), con un adattamento del simbolo di genere femminile; e il marchio Volvo, con un implicito richiamo al simbolo di genere maschile.
Tutto questo potrebbe apparire come banale retorica, ma il fatto che esista un di-segno, un codice visivo, che identifichi l’immagine dell’infinito è, di per sè, la conferma della necessità dell’uomo di definire qualcosa di indefinibile, sebbene parte reale e integrante della propria persona.
L’infinito, prima che un concetto, è uno dei sensi dell’uomo; certo, non uno dei rispettivi cinque organi fisici, ma di quelli che appartengono alla sfera della percezione interiore, territorio mentale dove la persona si costruisce col tempo un’esclusiva identità. Questa è anche la sfera del branding che, agendo attraverso l’inconscio, si alimenta grazie a dei concetti in grado di legarsi al vissuto di una persona e a dei simboli che consentono di comunicare.
La nascita del simbolo
Etimologicamente il termine infinito deriva dal latino ‘finitus’, limitato, preceduto dalla particella di negazione –in, definendo così la qualità di qualcosa senza limiti o che non termina mai. Il segno grafico, un numero otto rovesciato, ha origine dal mondo della matematica e venne introdotto nel 1655 (anche se venne usato regolarmente solo a partire dal 1800) dall’inglese John Wallis (1613-1703), professore di geometria all’Università di Oxford nonché famoso inventore e decifratore di codici. Pare che Wallis abbia ideato il simbolo partendo dalla lettera ‘m’ che, in romano, indicava un numero grandissimo, equivalente anche al numero 1000; oppure dalla lettera greca “Phi”, un cerchio attraversato da una linea verticale, che indica la sezione aurea.
A destra, la lettera "phi" dell'alfabeto greco (nella forma maiscuola e minuscola). In matematica è usata per indicare la sezione aurea, in quanto iniziale del nome dello scultore e architetto greco antico Fidia (a sinistra, in un ritratto del 1826 di Jean-Auguste-Dominique Ingres), il quale la utilizzava nella composizione formale delle proprie opere.
Sin dall’antichità il concetto di infinito ha coinvolto i padri della filosofia occidentale, sviluppando analisi e considerazioni spesso contrastanti: per esempio i pitagorici ne associarono valori negativi perchè “solo ciò che è finito è perfetto, in quanto compiuto; mentre una cosa infinita è incompiuta, quindi mai completata”. Anche il mondo della letteratura non ha potuto fare a meno di sentirsi attratto dall’infinito, basti pensare alla nota poesia di Giacomo Leopardi*. I dibattiti si sono diffusi in tutto il mondo e susseguiti fino ai giorni nostri, incrociando discipline scientifiche e umanistiche, come l’astronomia e l’arte e ancora come il mondo della razionalità e quello esoterico. Nel medioevo, per citare altri pensieri, era in atto una continua ricerca della relazione tra l’infinito e il finito, del rapporto tra Dio e l’essere umano, arrivando così alla cultura del Rinascimento dove vi era sia la certezza che l’uomo non arriverà mai a comprendere l’assoluto, sia la convinzione che il suo potenziale è di tendere costantemente all’evoluzione dello spirito.
Da qui all’idea di soprannaturale il passo è breve, infatti l’icona dell’infinito (derivante dal popolo celtico che credeva fortemente nella reincarnazione) si riferisce alla ciclicità delle cose, portando dentro di sè qualcosa di magico, misterioso e quindi attraente. Il simbolo dell’infinito, oggi una lettera ideogrammatica appartenente a un ideale alfabeto globale, è un tratto che “non ha un inizio e una fine” e rappresenta la metafora di un doppio specchio dell’anima, dove l’individuo vede le proprie speranze e i propri sogni, per trasformare l’immaginario in qualcosa di reale.