Il dinamismo della marca

La marca rincorre il consumatore, che rincorre a sua volta la marca. Una fusione tra attese e promesse, tra richieste e risposte. In bilico tra moto perpetuo e autoillusione.

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La marca rincorre il consumatore, che rincorre a sua volta la marca. Una fusione tra attese e promesse, tra richieste e risposte. In bilico tra moto perpetuo e autoillusione.

Lei sostiene che ogni marco dovrebbe diventare un brand, è una tautologia o una provocazione?
Né l'una né l'altra, è la realtà di oggi: occorre contestualizzare la marca, in maniera sempre più precisa, più coerente con il sistema di valori dell'impresa/prodotto che rappresenta e quello delle percezioni del mercato cui si rivolge. In questo senso, tutto deve essere oggetto di attenzione nella costruzione di un brand, in quanto esso va pensato, costruito, quasi come l'identità di una persona.
L'azienda oggi deve costruire la brand identity pensando non più solo alle caratteristiche tecnico funzionali del prodotto che vende, in questo senso diciamo che occorre trasformare il marchio in brand. Tutte le aziende devono porsi in quest'ottica, perché la competizione sul mercato non risparmia nessuno e, mentre il prodotto in sé sarà sempre più clonabile, con un vero brand è assai più difficile.

Quindi il prodotto, nella comunicazione, rimane sempre più in ombra.
In un certo senso sì. Non è che non conti - è chiaro che la brand identity deve essere coerente con i reali contenuti del prodotto - però in termini di comunicazione, o di trasmissione di sensazioni, valori, atmosfere le caratteristiche specifiche del prodotto non hanno più la prevalenza di un tempo. Di esse si parla in contesti differenti, per esempio negli ambiti più tecnici. Ma costruire un brand, oggi, significa differenziare la propria offerta e, soprattutto, collocarsi in modo più chiaro nello spazio mentale del proprio pubblico di riferimento. Per raggiungere quest'obiettivo occorre coinvolgere l'intero universo esperienzale del consumatore-target.

Non a caso, il marketing esperienziale è in auge. Oggi insomma le marche devono emozionare?
Si, assolutamente: e devono poi suscitare le emozioni giuste per generare il posizionamento desiderato nella mappa di percezioni del pubblico. Bisogna capire in quale sfera emozionale si può inserire una determinata marca per essere credibile e indirizzare il pubblico che sente quella particolare sfera, sia essa trasgressione o rassicurazione o innovazione etc. Occorre che il brand s'insedi in un "mondo" e il cliente-utente s'identifichi e lo senta parte di sé, del proprio stile di vita. Solo a questo punto quella marca diventa una scelta spontanea. E quando il brand entra nella sfera emotiva del nostro cervello, la comunicazione non ha più alcun bisogno di convincere.

 

E' vero che in Italia la cultura del brand è poco diffusa?
Tradizionalmente, sul mercato nazionale le innovazioni di marketing si fanno strada con qualche anno di ritardo rispetto, per esempio, al mondo anglofono. Ma, del resto, non possiamo non dirci ormai tutti un po' brand victim, nel senso positivo del termine beninteso. Il brand ci parla, ci dice di noi stessi, delle evoluzioni del costume e dei valori che coltiviamo: per esempio, oggi incorpora in sé valenze etiche e di social responsability un tempo impensabili nella comunicazione commerciale. Gli anni '60 sono stati il trionfo del design, domani potrebbe essere il momento dell'arte o del teatro.

 

Ci può citare un progetto consumer e uno B2B che possono essere esempi rappresentativi di quanto detto finora?
Una success story importante in ambito consumer è il riposizionamento di Salmoiraghi & Viganò, un progetto che ha anche ottenuto diversi riconoscimenti nel settore. In questo caso l'obiettivo strategico è stato quello di trasformare il marchio da catena distributiva a vera e propria marca, costruendo una brand identity completamente nuova.
Per citare un caso in ambito B2B - in cui è più difficile che il marketing sia apertamente emozionale - abbiamo lavorato per Saes Getters. Si tratta di un'azienda, nata alla fine degli anni '40, che ha inventato i "getter", ossia i dispositivi che servono per la purificazione del vuoto dei tubi catodici, senza i quali - per esempio - i televisori oggi durerebbero assai meno nel tempo. Saes Getters vanta oggi per questi prodotti l'85% del fatturato del mercato mondiale. È una società che invetste l'8% del fatturato in ricerca e sviluppo, fatto inedito nel panorama aziendale italiano. Ci hanno interpellato per migliorare la loro identità istituzionale, affinché fosse consona con la loro esigenza di ampliare le proprie aree di business in nuovi mercati tecnologici: noi abbiamo dunque elaborato per loro un nuovo modo di porsi, trasformando l'approccio tradizionale alla comunicazione, estremamente tecnicistico e product oriented, in una visione sintetica di innovazione tout court, che prescinda dal dettaglio tecnico o, per l'appunto, da un prodotto specifico.

 

                                                                                                                                                   Intervista tratta da ADV, 24 maggio 2005.